E' necessaria un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato.

Antonio Cederna





sabato 3 luglio 2010

ANTROPOLOGIA, URBANISTICA E CULTURA DEL TERRITORIO

da Roberto Mazza

Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della natura” (Carta dei diritti del territorio. Rete Veneta).

“Le licenze facili e i permessi edilizi fai da te decretano la fine delle nostre malconce istituzioni. Il territorio, la città e l'architettura non dipendono da un'anarchia progettuale che non rispetta il contesto, al contrario dipendono dalla civiltà e dalle leggi della comunità.” (Gae Aulenti, Massimiliano Fuksas,Vittorio Gregotti.).

Gli antropologi ci hanno insegnato che nella parola “Cultura” sono racchiuse molteplici concezioni: conoscenze, credenze, consuetudini, norme, valori e tradizioni (di gruppi o popoli) che si costituiscono nel tempo, per effetto della vita associata, e si trasmettono di generazione in generazione attraverso l’educazione, le regole, le abitudini, traducendosi in fatti e comportamenti, e producendo stili di vita individuali e manifestazioni di civiltà (cfr. G. Costanzo, 1970, p.26) . E quasi tutti gli architetti del paesaggio sono convinti che le più grandi problematiche legate all’ambiente oggi non possano essere pensate e affrontate come “un insieme di nuove sfide tecniche”, su come costruire un palazzo, o come fare un ponte su un fiume, ma richiedano profondi cambiamenti culturali. (M. Conan, 2009, p.10) Una sorta di nuova etica nel rapporto tra l’uomo e la natura.

La parte forse più spinosa del problema urbanistico italiano sembra essere oggi essenzialmente un problema di “cultura” perduta. Essa è ben rappresentata dai lamenti di molti nostri concittadini che da Catania a Varazze, da San Quirico D’orcia a Palau, sino alla nostra vallata del Magra, reclamano il diritto di costruire nel proprio terreno, secondo quella nuova “cultura” diffusa che sente come prioritaria la difesa dei propri interessi rispetto al senso di comunità: un diritto la trasformazione del proprio pollaio in un pied-à-terre, l’orto in un “prato inglese”, il campo di mais in terreno edificabile, il fienile in un bed and breakfast, il terreno fertile in zona artigianale. Con il pensiero concreto che tutto ciò possa portare un po’ di buon denaro nella casse della famiglia, e con la fantasia che questa operazione crei nuovo “sviluppo”. Propensione assolutamente distruttiva per chi persegua più ragionevoli sogni di benessere sociale e voglia occuparsi di progresso civile e ambientale sostenibile, di decoro ed estetica, di salvaguardia del paesaggio e di turismo, della necessità globale di “restaurare l’agricoltura contadina”, come scrive l’economista Latouche, e cioè di incoraggiare una produzione il più possibile locale, stagionale, naturale, tradizionale.

Perché – si chiede Edoardo Salzano - in Francia, in Germania, in Inghilterra le cose per ciò che riguarda la pianificazione del territorio funzionano meglio?

“Perché c’è una amministrazione pubblica autorevole, più efficiente, devota agli interessi collettivi… Bisogna far rinascere il pensiero critico che si è spento. Dobbiamo sapere che possiamo cambiare le cose. Dobbiamo lavorare come cittadini. Chi decide sono i comuni, e quindi sono i cittadini che eleggono i loro rappresentanti. Bisogna incalzarli, far fare piani urbanistici che risparmino suolo. Non si costruisce quando già ci sono case e capannoni vuoti.”

In Francia è sempre più forte la tendenza a salvaguardare lo spazio agricolo. In Francia, così come in Germania, si punta sull’uso di zone industriali dismesse salvando le zone naturali e addirittura “perenizzando alcune vaste aree agricole”. Mentre da Rossano Calabro a Castelnuovo Magra il modello italiano è lo stesso: il paesaggio, la qualità dell’ambiente e del territorio, sono subordinate al piccolo (o grande) interesse economico speculativo, spesso riconvertito in un inutile spazio costruito, in un contesto artificiale fatto di caos abitativo, cemento e capannoni. Si vive per il presente come mai nella storia (gli antichi romani chiedevano garanzie agli architetti che progettavano ponti per almeno tre generazioni).

Senza idee per il futuro, il “bel paese” di cui ci parla con angoscia Giorgio Bocca, sta trasformando i terreni fertilissimi della pianura padana in capannoni industriali. Per lo più vuoti. Poiché sono stati progettati prima che la grande produzione industriale, tessile o siderurgica, si trasferisse in Romania o in Polonia, o venisse sostituita da quella cinese. “Qua e là riuscite ancora a vedere un campanile, ma il resto è urbanistica informe, una metastasi di casoni e casette venuti a slavina senza un piano regolatore, di materiali scadenti, di forme informi, collegati da autostrade che si vergognano di essere così brutte e si nascondono dietro tabelloni di vetrocemento e di plastica.” (Giorgio Bocca). Le aree verdi sono diventate zone industriali senza industria, e senza idee. Molti proprietari agrari reagiscono alla crisi vendendo terreni alle cooperative edili, rinunciando all’azienda agricola di famiglia.

Il vero volano dell’economia oggi in Italia sembra essere l’eredità di famiglia, il terreno, la casa, il pollaio, la pensione dei nonni, la liquidazione dei genitori.

Il bel filmato di Legambiente Parma sul consumo di suolo in Emilia, fa intuire meglio di ogni altra cosa il triste destino delle zone industriali e artigianali, vuote e desolate, che hanno sostituito le millenarie certezze della fertilità dei suoli padani con le deliranti fantasie di un progresso industriale già scaduto e di attività produttive e artigianali “ingenue”, pianificate pensando ai salari dell’est, alle tecnologie giapponesi, all’operosità dei cinesi e agli investimenti americani. “Il territorio è diventato merce per costruire qualcosa che abbia un valore di mercato. Una volta il territorio era considerato per ciò che dava. Per i suoi prodotti agricoli, per la sua fertilità…per la bellezza.” (Edoardo Salzano)

E’ necessario produrre una “nuova cultura” che recuperi in parte i valori del passato e che non si vergogni più dell’agricoltura e della tradizione contadina, che reinterpreti la modernità e il progresso semplicemente contestualizzandolo, in termini di qualità del vivere, di estetica e di alimentazione, di tempo libero, di nuove economie e tecnologie, senza pensare di riconvertire o trasformare la campagna fertile nella “capannonizzazione del territorio”…”fenomeno assolutamente italiano che pesca nella torbidità degli interessi locali senza essere l’espressione delle necessità locali” (L. Mercalli). Le zone industriali e artigianali un tempo pensate come ipotetico luogo di prestigio (almeno anni fa era cosi…ogni comune voleva la sua zona industriale...) oggi sacrificano per sempre la produttività dei nostri terreni migliori, danneggiando irreparabilmente la produzione agricola, e producendo inutili bruttezze e devastazione del paesaggio. Un fenomeno in Italia particolarmente gravoso (poiché si tratta di un paese di dimensioni molto modeste) e che rappresenta anche un “fallimento culturale” per un territorio con una tradizione ed una storia millenaria (“il paese dell’arte stessa”, come scriveva Cesare Brandi) che non sa più far convivere il passato con il presente. Un popolo che ama il paese e le eredità storiche non avrebbe fatto tutto ciò.

Un paese che vede nell’agricoltura qualcosa di cui vergognarsi…, un paese che nega l’agricoltura, sentita come marginale, non moderna, non interessante per il futuro, questo ha fatto si che molte persone abbiano alienato il bene suolo vedendone una qualche forma di possibilità rapida di guadagno e di disfarsi di un passato ingombrante.” (L. Mercalli)

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Mentre la politica annaspa ed in questo “brodo culturale” trova un macabro sostentamento, la necessità sempre più vitale è quella di trovare soluzioni che producano cambiamenti. Anche lenti. Il rapporto tra la classe politica, le amministrazioni e la cosiddetta società civile (fatta di individui, ma anche di piccoli proprietari e imprese) è in un rapporto di “circolarità eco-sistemica” esemplare (G. Bateson, 1972): come in ogni sistema vivente l’una parte influenza l’altra, ne potenzia i difetti, irrobustisce i modelli. Se il modello dominante è il passeggio negli outlet, gli amministratori saranno autorizzati a progettare nuovi e più accattivanti shopping center, la cui costruzione ne implementerà a sua volta la fruizione ed allargherà il contagio ed il consenso ad un modello distorto (ed ormai morto nelle coscienze più civili) e nelle culture (individuali e sociali) più consapevoli. Ma se, come in tutti i sistemi umani, la totalità e l’interdipendenza tra le parti sono proprietà indiscutibili, dobbiamo pensare che anche ogni cambiamento in ciascuna singola parte non potrà non modificare l’intero sistema. O meglio il sistema non rimane indifferente di fronte anche ai più piccoli o impercettibili cambiamenti.

Allora la terapia risiede nel produrre, o solo potenziare, i movimenti culturali, arricchiti di nuove conoscenze (su ciò che fa male), nuove credenze (ciò che fa bene), nuovi costumi (la riduzione dei consumi superflui), nuove riscoperte abitudini (l’uso del treno), nuove e potenziate consuetudini (si vedano gli elogi della bicicletta, di I. Illich e M. Augè), in ultimo i nuovi valori, ben espressi da Latouche nei suoi vari saggi sulla decrescita.

Pensiamo all’accresciuta coscienza civica rispetto all’inevitabile esaurimento delle fonti di energia e delle riserve idriche e alimentari, alla perdita irreparabile del suolo e dei paesaggi, all’inquinamento globale; al rinnovato richiamo alla partecipazione da parte della cosiddetta “società civile” come metodo per influenzare le scelte della politica locale, al cambiamento degli stili di consumo, al nuovo clima ecologico ambientalista che si respira nelle grandi città, da Manhattan a Pechino, al generale e diffuso consolidamento della cultura e delle colture biologiche.

C’è chi guarda soltanto all’albero e chi è responsabile della foresta. È normale che un individuo ed una famiglia guardino all’albero della propria felicità ed è normale che una classe dirigente si dia carico dei problemi dell’intera foresta, la faccia potare, ne faccia tagliare le piante secche e ne faccia germogliare nuovi arbusti.

Ciò che non è normale è una classe dirigente che guardi anch’essa soltanto ad un suo albero mandando tutto il resto in malora. Ciò che non è normale è quando il senso civico si trasforma in puro egoismo e localismo e i paesi si cingono di torri e porte e mura merlate e difendono il territorio dalla contaminazione degli altri.” (E. Scalfari su La Repubblica, 25 aprile 2010)

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