E' necessaria un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato.

Antonio Cederna





giovedì 2 settembre 2010

Che Croce tutelare il paesaggio!

Fonte: Il sole 24 ore, 29/8/2010

di Salvatore Settis

Il filosofo napoletano si era fatto promotore di una legge per difendere il patrimonio.
Oggi non si riesce a unire le forze per replicarla
 
Nel suo Breve trattato del paesaggio ( 1997), recentemente tradotto da Sellerio, Alain Roger fa
una riflessione interessante: nel 1912 tre  grandi intellettuali europei osservarono, indipendentemente, che il  
paesaggio non è natura ma storia, perciò lo "vediamo" attraverso il filtro della letteratura e dell’arte. Questo più o meno scrissero in Francia Charles Lalo, in Germania Georg Simmel, in Italia Benedetto Croce.Tanta sintonia si spiega per il comune riferirsi a un topos classico, quello secondo cui «la natura s’ingegna a imitare l’arte»,come scrisse Ovidio; ma riflette lo spirito del tempo di quel principio di secolo, quando i movimenti per la conservazione del paesaggio si affermavano in tutta Europa. Per Croce, questa preoccupazione non fu solo teorica,ma si tradusse in un’energica azione politica: a lui infatti si deve la prima legge generale italiana per la tutela del paesaggio.
È una storia che comincia da lontano, dall’Unità d’Italia. Cominciarono allora subito ardue battaglie per proteggere il patrimonio artistico e archeologico. Gli Stati preunitari avevano in merito le leggi più antiche e
avanzate del mondo: papi, repubbliche e sovrani, specialmente dal Settecento, sulla scia del diritto romano anteposero nettamente il bene comune (utilitas publica) agli interessi della proprietà privata, limitandone i diritti. L’unificazione del paese fu per mercanti e collezionisti l’occasione di approfittare del vuoto
legislativo per vendere numerosissime opere d’arte (fu allora che avvenne la massima emigrazione di
quadri, statue,manoscritti, disegni verso i musei stranieri). Restavano in vigore le leggi pontificie a Roma, quelle borboniche a Napoli, e così via; ma si stentò a lanciare una normativa nazionale. Il primo disegno
di legge, voluto da Cavour e affidato a Terenzio Mamiani, naufragò subito; così, in rapida successione, le proposte di ministri della Destra (come Cesare Correnti e Ruggero Bonghi) e della Sinistra (come Michele
Coppino, Francesco DeSanctis, Pasquale Villari, Ferdinando Martini). Si arrivò infine alla timida legge del 1902, che proteggeva ben poco, eppure fu bollata in Senato come "feroce"perché intaccava i privilegi della proprietà privata, «diritto divino perché emanante dalla volontà di Dio ». Presto si constatò alla prova dei
fatti la debolezza della legge del 1902, e si avviò il percorso verso una normativa più  efficiente, che dopo un faticoso percorso sarebbe diventatala legge n.364 del 1909.

In quelle accese discussioni esplose il contrasto fra la Camera (interamente elettiva) e il Senato, dove per nomina regia o per censo sedevano molti membri dell’alta aristocrazia, interessati a mettere sul mercato le proprie collezioni. Non tutti, però. Senatore era anche il principe Tommaso Corsini, membro della
stessa famiglia del card.Neri Corsini, ispiratore nel 1737 del «patto di famiglia» Medici-Lorenache assicurò per sempre a Firenze le collezioni granducali,  e del papa Clemente XII, che volle nel 1734 severe norme di
tutela e la fondazione dei Musei Capitolini, prima raccolta pubblica d’Europa. Nel 1898, per reagire agli sventramenti del centrostorico di Firenze che ne sfigurarono il volto a partire da quando fu capitale del Regno, Corsini aveva fondato l’«Associazione per la difesa di Firenze antica»,che divenne il centro di un
vasto movimento di opinione. Dopo la raccolta di migliaia di firme, in un’affollata assemblea a Firenze fu votata per acclamazione una petizione al Senato: a proporla fu Benedetto Croce, poco più che quarantenne e non ancora senatore, ma già autorevolissimo.
Quella legge aveva tre padri: due ravennati, il ministro Luigi Rava e il direttore generale Corrado Ricci (artefici nel 1905 di una legge  per la tutela della pineta di Ravenna) e un deputato toscano, Giovanni Rosadi. Nel disegno di legge, essi avevano aggiunto alla tutela del patrimonio anche quella di «giardini, foreste, paesaggi, acque» di prevalente interesse pubblico. Approvata dalla Camera, questa norma venne bocciata dal Senato, e il comma  3 che la conteneva fu soppresso, pur invitando il governo a presentare un disegno di legge sulle «proprietà fondiarie che importano una ragione di pubblico interesse a causa della
loro singolare bellezza». In questo testo, il termine "paesaggio" è evitato, e la dizione "proprietà fondiarie" indica di dove venissero le resistenze a includere il paesaggio fra i benida tutelare.Ma Rosadi non rinunciò alla  battaglia, e già il 14 maggio 1910 presentò una nuova proposta di legge. La relazione si apriva con una domanda: «È possibile che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia,e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?». Fu possibile. Eppure era accaduto allora qualcosa che nell’Italia di oggi non si riesce nemmeno a immaginare, la formazione di un Comitato nazionale per la difesa del Paesaggio,  che raccolse non solo dieci associazioni protezionistiche, ma anche sei Ministeri, le Ferrovie dello Stato ed altre istituzioni pubbliche.
La legge Rosadi continuò a trascinarsi invano fra Camera e Senato, a l’impulso decisivo fu dato da Nitti, quando nel suo primo governo istituì (1919) un sottosegretariato alle Antichità e Belle arti, preannuncio del ministero dei Beni culturali creato quasi sessant’anni dopo.
Sottosegretario fu il veneziano  Pompeo Molmenti, sostituito pochi mesi dopo proprio da Rosadi, che tenne l’ufficio anche nei successivi governi Giolitti e Bonomi.
Molmenti aveva nominato una commissione presieduta da Rosadi per redigere la nuova legge, che fu pronta in pochi mesi, riprendendo quella insabbiata dieci anni prima.
Dopo la caduta del governo Nitti, il disegnodi legge fu ereditato dal quinto governo Giolitti, dove ministro della Pubblica istruzione era Croce. Egli rilanciò immediatamente  il progetto, presentandolo al Senato con
una vigorosa relazione introduttiva, e riuscì a farlo approvare il 31 gennaio 1921. Sciolta la Camera, si tennero il 15 maggio 1921 elezioni anticipate: ma prima che giurasse il nuovo governo e il nuovo ministro, Croce ripresentò la legge tal quale (15 giugno). Rosadi restava sottosegretario, e fu anche grazie a lui che la
legge continuò il suo cammino coi ministri Corbino (governo Bonomi) e Anile (governo Facta).
Finalmente approvata l’11 maggio  1922, la legge (n. 778) fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21giugno, quattro mesi prima della marcia su Roma.
Occorre una legge che «ponga, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche  più note e più amate del nostro suolo», scrive Croce nella sua relazione, poiché «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze  d’Italia, naturali e artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Croce cita i movimenti per il paesaggio in Francia, Germania, Svizzera, Austria e Inghilterra,  richiama  Ruskin («il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria»),e argomenta che è necessario notificare i paesaggi di"  importante interesse", sottoponendoli a speciali limitazioni del diritto di proprietà, in nome di «ciò che è in cima ai pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l’Italia ». Le limitazioni alla proprietà privata sono indispensabili come una servitù per pubblica utilità»,poiché sarebbe egualmente inammissibile «deturpare un monumento o oltraggiare una bella scena paesistica, destinati entrambi al godimentodi tutti».
La legge Croce fu poi alla base della legge Bottai sul paesaggio (1939), che ancora è il nerbo del codice dei Beni culturali e del paesaggio, raro esempio di legge bipartisan condotta in porto da ministri (Urbani, Buttiglione, Rutelli) di due governi Berlusconi e di un governo Prodi; eppure è fra le leggi più disattese d’Italia, martoriata da deroghe, sanatorie, condoni, piani casa e quant’altro. Rileggiamo allora le parole di Croce, ma guardiamoci  intorno:  le «ingiustificate devastazioni» del nostro suolo si intensificano ogni giorno, il primato del pubblico bene che fu il cuore della storia  d’Italia viene oggi impunemente calpestato 
in nome di un mercatismo straccione.
Chiediamoci dunque: siamo capaci, noi  oggi, di combattere le battaglie che un secolo fa seppero vincere Ricci e Rava, Rosadi e Benedetto Croce? Sapremmo coalizzarci in un rinnovato Comitato nazionale per la difesa del paesaggio?

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